Psicofarmaci e Psicoterapie
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Questo contributo nasce dall’esigenza di comprendere alcuni aspetti delle terapie utilizzando psicofarmaci. Premetto che considero gli psicofarmaci utili, se non indispensabili, in tutte le situazioni in cui i sintomi risultano estremamente debilitanti e invalidanti. Ma è anche vero che spesso sono gli stessi psicofarmaci ad essere invalidanti. Per cui credo che la decisione di un medico se prescrivere o meno una terapia psicofarmacologica debba tenere conto di questi due aspetti. Cioè valutare la soluzione che reca alla persona minor disagio sia in quel preciso momento sia in una prospettiva a medio e lungo termine.
Non voglio fare una disquisizione sugli psicofarmaci, sugli effetti collaterali, ecc.
Il punto di partenza di questo contributo è che gli psicofarmaci fanno male, creano dipendenza e cosa ancora più importante non hanno assolutamente il potere di modificare le strutture da cui proviene il disagio e quindi l’unico effetto che possono generare è quello di alleviare i sintomi.
Quello che mi preme dire è che l’uso di psicofarmaci per patologie non particolarmente gravi (asse nevrotico), specialmente in persone giovani, è una cosa clinicamente sbagliata.
Esistono patologie in cui il supporto farmacologico è assolutamente necessario (asse psicotico e psicopatico), ma per patologie appartenenti alla sfera nevrotica e per alcune forme di depressione, la psicoterapia è l’unica forma terapeutica prescrivibile in grado di portare risultati stabili nel tempo. Questo perché attraverso un percorso psicoterapeutico il paziente ha la possibilità di conoscere e confrontarsi con le cause del disagio. Analogo discorso per le insonnie, le cefalee ed altre forme patologiche che non sto qui ad enumerare poichè in molti casi dipende anche dalla loro intensità, non solo dalla tipologia.
Per quanto riguarda le patologie più gravi, dove il farmaco è indispensabile, credo sia comunque necessario affiancare ad una terapia farmacologia una psicoterapia. Questi due aspetti terapeutici devono essere coordinati e quindi gestiti in sintonia tra chi svolge la Psicoterapia e chi prescrive la Farmacoterapia.
Ho constatato personalmente che medici generici prescrivono farmaci ansiolitici ai loro pazienti, per giunta giovani, che presentano in varie forme, disturbi ansiosi (ansia diffusa, attacchi di panico, fobie ecc). Stesso discorso vale per i disturbi depressivi. In tutti questi casi può accadere, in alcuni, di non riuscire a seguire la terapia per difficoltà a convivere con il farmaco, o più semplicemente perché non vogliono prenderne. A quel punto viene consigliata una psicoterapia. In linea generale l'approccio corretto è esattamente il contrario. Nei casi in cui i sintomi non sono invalidanti in primo luogo si intraprende una psicoterapia e solo successivamente si può introdurre un farmaco di supporto.
Prima di tutto occorre comprendere che ogni professionista che opera a livello sanitario dovrebbe cercare, di fronte ad un disagio, la mobilitazione di risorse interne del paziente. Questo semplicemente perché se si riesce a far questo, è molto probabile che la remissione dei sintomi sarà stabile nel tempo. Nel caso in cui non si riesca a mobilitare tali risorse allora credo sia corretto utilizzare lo psicofarmaco adeguato alla patologia ma comunque non abbandonare mai l’ipotesi psicoterapeutica. Infatti questa può non essere efficace in un determinato momento, ad esempio quando la persona non si sente pronta, ma successivamente possono crearsi le condizioni idonee per seguire una Psicoterapia.
Anche nelle forme reattive, cioè quando il disagio è stato determinato da un preciso evento, lutto, separazione, ecc, avere la possibilità di affrontare in modo costruttivo il proprio vissuto può essere determinante per il proprio futuro. Nel caso di una depressione in seguito a un lutto, per esempio, la Psicoterapia può essere di estremo aiuto per integrare quella parte di noi che "muore" insieme alla persona cara che abbiamo perso. Ciò evita indiscutibilmente futuri stati depressivi apparentemente inspiegabili ma nella maggior parte dei casi riconducibili a episodi fortemente traumatici vissuti in passato.
Credo che questa sia una questione importante in quanto il disagio psicologico che si manifesta attraverso varie forme sintomatiche debba essere affrontato tenendo conto della persona e questo non può essere fatto attraverso il solo farmaco.
Bisogna tenere anche in considerazione che viviamo in un tempo in cui alcune forme psicopatologiche vengono quasi premiate, mentre altre punite. Ad esempio una persona con tratti maniacali, in genere capace di macinare quantità impressionanti di ore lavorative, è in genere incoraggiata a farlo. Al contrario, una persona con tratti depressivi avrà costantemente intorno qualcuno pronto a dirgli che fa poco e quindi vale poco. In generale le dinamiche collettive incoraggiano l’affermazione dell’individuo solo se questa è funzionale al collettivo stesso. Cioè, proprio per sua caratteristica e funzione, il Collettivo non aiuta l’individuo come entità a se stante ma come una porzione del collettivo stesso. Può essere utile osservare queste dinamiche collettive nelle tifoserie, nelle varie forme religiose, in tutti quei casi in cui la persona viene a definirsi all’interno di un gruppo, in generale un contenitore. In questi casi, i più estremi, l’individuo non esiste o meglio esiste in funzione, in fusione con il Collettivo. In questa linea di pensiero, il farmaco è una risposta collettiva al disagio, è una risposta che spinge la persona ad un adattamento prevalentemente passivo ad una cura uguale per tutti.
La persona ha bisogno di avere un contatto con il proprio mondo interno e questa esigenza diventa impellente quando si vive un disagio. In realtà la posizione in questi casi è fortemente ambivalente. Da una parte si cerca di fuggire dal disagio, dall’altra si cerca di avere un contatto con esso. E’ chiaro che la fuga non permette una soluzione reale, anche se a brevissimo termine può aiutare. Certamente non da la possibilità di individuare, conoscere le cause che lo determinano. Spesso il farmaco è funzionale alla fuga. Lo spostamento, non geografico e non fisico ovviamente, sta nel delegare la soluzione al farmaco stesso e a chi lo somministra. Viene annullata una osservazione interiore, vengono messe da parte risorse interne che potrebbero, se adeguatamente mobilitate e sostenute, essere il fattore determinante per un cambiamento.
Vorrei spendere due righe sui sintomi. I sintomi rappresentano un segnale, una manifestazione di un disagio interno. Per esempio, quando abbiamo un’influenza, una frequente caratteristica sintomatica è l’innalzamento della temperatura corporea. Quando la temperatura arriva a livelli insopportabili usiamo farmaci antipiretici che sono in grado di riportare la temperatura a valori normali. Sappiamo bene che questa categoria di farmaci non ha nessuna capacità terapeutica. Questo per dire che l’ansia, per esempio, non è una patologia ma un sintomo e gli ansiolitici sono semplicemente dei calmanti esattamente come gli antipiretici per la temperatura corporea.
Rimango abbastanza sorpreso quando leggo su quotidiani, settimanali ecc. che un nuovo farmaco promette di debellare l‘ansia, depressione e quant'altro. Tendo ad avere una certa diffidenza nelle persone e nelle cose che promettono felicità poiché è molto probabile che dietro promesse celestiali ci sia un imbroglio.
Per concludere vorrei ancora una volta affermare che l’individuo, la persona deve essere necessariamente considerata come tale, non è pensabile l’esistenza di una soluzione uguale per tutti. Certamente esistono caratteristiche costanti nel genere umano, cioè esistono disturbi, disagi di cui in linea generale è possibile, avendo una robusta esperienza clinica, conoscere le determinanti psichiche a priori. Ciò nonostante ogni persona è unica e così il disagio che porta. Anche per questo un farmaco, non pensato per quella persona, non può agire in modo mirato e quindi risolutore, ma al contrario agisce sulle caratteristiche e strutture mentali in modo impersonale. Nelle psicoterapie il terapeuta non dovrebbe avere pregiudizi rispetto al paziente, la sua conoscenza della persona che ha davanti avviene attraverso le varie sedute. Attraverso queste, deve considerare le potenzialità della persona, mobilitare risorse che permettano di affrontare il disagio in modo costruttivo. Quello che garantisce l’efficacia delle psicoterapie è il rapporto che viene a costruirsi tra terapeuta e paziente. Il rapporto terapeutico è in grado di costruire conoscenze e significati che riguardano le problematiche del paziente, che potrà interiorizzarli, farli propri, ed utilizzarli per affrontare in una differente prospettiva sia aspetti interni sia esterni. Quindi non c’è una delega ad una entità esterna, come invece avviene con i farmaci, in quanto nel rapporto terapeutico sono coinvolti sia il terapeuta sia il paziente.
Tutto ciò può risultare faticoso e complicato, la pasticca lo è meno.
Ma considerare l’esistenza umana una cosa semplice, senza sofferenza, senza ostacoli è una posizione ingenua o meglio lontana alla nostra natura.
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